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Perfezionismo e Fallimento

IL PERFEZIONISMO

 

“Non si può giocare davvero a nessun gioco se si sa in anticipo di vincere sempre.”
Massimo Recalcati

 

 

Il perfezionismo è una caratteristica personale che si manifesta attraverso molteplici comportamenti, credenze, stati d’animo, modi di affrontare la vita. E’ la consuetudine ad esigere da sé stessi una performance di qualità maggiore rispetto a quella richiesta dalla situazione che si sta affrontando.

L’individuo ipercritica il proprio comportamento e vive in uno stato d’ansia costante, causato proprio dal bisogno di fare sempre di più. Sono pervasivi la paura di fallire e la svalutazione dei risultati ottenuti; dunque, il soggetto tende a sottolineare sempre i propri errori. Questo determina un abbassamento dell’autostima e la convinzione che per ottenere l’approvazione degli altri sia necessario dimostrare assiduamente il raggiungimento di obiettivi sempre più elevati.

Secondo Karen Horney (1950) la psicopatologia insorge quando il comportamento è guidato da strategie finalizzate a difendersi dall’ansia piuttosto che dalla tendenza a ricercare la realizzazione di sé. Tra queste strategie si colloca lo stabilire degli standard morali ed intellettuali eccessivamente alti. Dunque, un’immagine di sé idealizzata e perfezionistica garantisce un senso di valore personale, ma il constatare di non essere all’altezza di questa immagine può essere devastante per il soggetto. L’immagine di sè così idealizzata richiede un codice di condotta severo e moralistico. Alcune persone tentano di ottenere la perfezione stabilendo una lista di rigidi dictat che indicano il giusto comportamento da mettere in atto e la giusta punizione per il fallimento.

Missildine (1963) introduce una distinzione fra il soggetto perfezionista e quello professionalmente competente, che trae soddisfazione e piacere dal fare un buon lavoro. In quest’ultimo caso, il risultato positivo incrementa la propria autostima.

Il perfezionista, invece, non trae soddisfazione da un lavoro ben svolto ma ha sempre la percezione che avrebbe potuto farlo meglio e che tutto ciò che non è perfetto è un fallimento. La temporanea depressione che ne deriva alimenta la speranza di poter fare meglio in futuro, finché il carico da sopportare non diventa troppo grande. Missildine, inoltre, ritiene che aspettative genitoriali troppo alte portino i bambini a non sentire mai di aver fatto le cose sufficientemente bene da essere accettate. Alcuni iniziano a pensare che sia necessario essere impeccabili per essere amati, anziché accettati per come si è. Quello che il bambino ottiene con una prestazione non impeccabile è la promessa di accettazione se la prossima volta dimostrerà di far meglio.

Tali genitori favoriscono lo sviluppo di bambini sempre alla ricerca della perfezione, ma nello stesso tempo ansiosi, insicuri e incapaci di accettare e capire quale dovrebbe essere una performance sufficientemente buona. Hollender (1965) descrive così l’esperienza del bambino: «Se mi impegnassi di più, se facessi un po’ meglio, se diventassi perfetto i miei genitori mi amerebbero». Questo sviluppo è così inconsapevole che i genitori non si rendono conto dell’effetto che le loro aspettative hanno sui figli.

Da adulto, nessun livello di realizzazione può far sentire il perfezionista una persona affermata e nessun successo può ritenersi abbastanza per qualcuno che cresce in questo modo; anche il più piccolo errore può causare grandi sofferenze. Ogni azione è guidata dalla paura del fallimento e seguita dalla pesante sensazione del «avrei potuto fare meglio».

Hollender (1965) ipotizza che i perfezionisti siano guidati ad agire in maniera perfetta dall’autocritica piuttosto che da qualsiasi desiderio di acquisire padronanza o competenza. La stima di se stessi dipende da come gli altri li valutano e quindi, devono sforzarsi costantemente per soddisfare quelle aspettative, piuttosto che sviluppare un chiaro senso di sé. Questi standard irrazionali, sebbene possano derivare dai genitori, presto diventano parte dei criteri personali su cui si costruisce la propria autostima.

Il perfezionismo, quindi, va distinto dalla “salutare ricerca di eccellere” (Burns 1993): funzionale, positiva e associata a soddisfazione personale. Quest’ultima porta ad un aumento dell’autostima, creatività ed entusiasmo; l’errore è considerato come una possibilità di apprendimento.

Il perfezionismo patologico, invece, è caratterizzato: dalla paura di fallire, dall’ insoddisfazione per i propri risultati, da autocritiche; dal pensiero tutto o nulla (ogni cosa che non è perfetta è un fallimento); dalla preoccupazione di essere valutati e giudicati negativamente dagli altri; dal pensiero catastrofico; da standard inflessibili, elevati e irrealistici, da eccesso di responsabilità personale e dal bisogno di controllo sugli eventi; da doverizzazioni e confronti sociali inappropriati.

 

BIBLIOGRAFIA:

LOMBARDO C., VIOLANI C., (2011), Quando “Perfetto” non è abbastanza. Conseguenze Negative del Perfezionismo. Collana: «Psicologicamente. Collana dei Dipartimenti di Psicologia – Sapienza Università di Roma».

GUARDINI S. (2004), Cognitivismo clinico. Rassegne  1,1, 65-76. Perfezionismo clinico. Verona