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Author Archives: Lara Lorenzetti

Genitorialità

Gravidanza e Neogenitorialità

Durante la gravidanza e nei primi mesi di vita del bambino, la madre deve elaborare dei processi psichici del tutto inconsci; è un momento estremamente delicato in cui la donna inizia a distinguere tra realtà, fantasie e fantasmi relativi al parto, al neonato e all’ambiente esterno (Ferraro, Nunziante Cesaro, 1985).

La nascita di un bambino è un’importante fase della vita di una donna che permette la riorganizzazione del proprio mondo interno e la creazione di uno spazio adatto a contenere l’idea del piccolo arrivato e di se come genitore (Minuchin, 1976).

Possiamo evidenziare, dunque, quanto sia importante un processo elaborativo in questo particolare periodo, considerato da vari autori, proprio come un momento di crisi, in cui si riattivano anche conflitti e vissuti dell’infanzia. Soifer (1971) sostiene, infatti, che la madre inizia un processo regressivo in cui entra in contatto con le emozioni vissute da bambina: se la donna è riuscita ad identificarsi con una buona immagine materna, riuscirà a vivere serenamente anche l’esperienza della maternità.

Ogni madre risponde non tanto al bambino reale, ma a quel che di sé vede fantasmaticamente proiettarsi nel suo bambino. Se il bambino guardando la madre vede se stesso nello sguardo dell’Altro, si vede come la madre lo vede: amabile, desiderabile, oppure no. Guardando il bambino la madre deposita inconsciamente in lui la sua storia di figlia. Se dunque, per il bambino essere amabile dipende dallo sguardo della madre, per la madre l’amabilità di un bambino può dipendere da come ha integrato in se stessa la propria maternità e, in particolare, il legame con sua madre. In ogni gravidanza, infatti, la futura madre si confronta con il fantasma della propria madre e dovrà morire come figlia (Recalcati, 2016).

Possiamo affermare, quindi, che la gravidanza ed il periodo successivo al parto sono fondamentali per i rapporti che si instaurano tra la madre ed il neonato, il partner e la famiglia.

Bibring et al. (1961) individua nella futura madre due fasi: l’accettazione dell’ambiente come parte integrante di sé e il riconoscimento dell’esistenza del bambino dentro di sé. Secondo l’autore la gravidanza è caratterizzata da un’estrema vulnerabilità della donna che può destabilizzare l’equilibrio precedentemente raggiunto. Se questo “lavoro psichico” non riesce a concludersi con l’acquisizione di un nuovo equilibrio maturativo, può evolvere in un disturbo depressivo nel post-partum.

Pines (1982) indagando lo stato mentale della donna in gravidanza, individua quattro differenti stati: una polarizzazione su di sé caratterizzata da regressione e passività; la presenza di ansia e perdita in seguito alla percezione del feto come entità separata; ansia riguardante l’integrità del bambino durante il travaglio ed il parto; il periodo del dopo parto. Questi numerosi cambiamenti possono creare profonde difficoltà in grado di compromettere l’identità individuale. Per la futura mamma sarà quindi necessario ridefinire, oltre che la realtà esterna, preparando uno spazio fisico nel mondo reale per il neonato, anche il proprio mondo interno, creando uno spazio che gli permetta di contenere l’idea di un figlio. Stern sostiene, infatti, che alla nascita del bambino corrisponde la nascita psicologica della madre.

Molte donne nel periodo del post-parto sperimentano una vasta gamma di emozioni positive, come felicità e soddisfazione, ma possono presentare anche ansia, confusione, frustrazione e tristezza. I disturbi dell’umore presenti in questo delicato periodo sono ancora oggi sottodiagnosticati con conseguenze di vasta portata per la donna e per tutta la famiglia.

La maternity blues è nota anche come “baby blues” ed è un periodo in cui la donna è estremamente emotiva, presenta frequenti episodi di pianto, è irritabile, ipersensibile e ha oscillazioni dell’umore che durano da alcune ore a diversi giorni dopo il parto (Horowitz et al. 2005).

La baby blues è molto comune e vissuta dalla maggior parte delle madri; i suoi sintomi non interferiscono con il funzionamento sociale e lavorativo delle donne e necessita il più delle volte del solo sostegno familiare. Tuttavia, se persiste può renderle vulnerabili a una forma più grave di disturbo dell’umore.

La depressione post partum, ad esempio, è il disturbo psichiatrico più comune osservato nel periodo che segue la nascita di un bambino. È difficile distinguerla dalla depressione che generalmente si manifesta in qualsiasi altro periodo della vita di una donna, tuttavia, i pensieri negativi presenti in questo tipo di depressione sono principalmente riferiti al neonato. I sintomi che caratterizzano questo disturbo sono: sentimenti di inadeguatezza, collera, ipersensibilità, ansia, vergogna, odio e trascuratezza verso se stessa ed il bambino, disturbi del sonno e dell’appetito, calo del desiderio sessuale e pensieri suicidari (Raphael-Leff, 1991; Nonacs, 2005). Inoltre, sono spesso frequenti pensieri di carattere ossessivo che riguardano il bambino, paure immotivate di fargli del male o preoccupazioni eccessive circa il suo benessere e la sua sicurezza. È importante anche tener presente dei cambiamenti ormonali che possono influire sull’insorgenza di questo disturbo. Il fatto che la maggior parte delle donne dopo il parto sia soggetta a cambiamenti ormonali ma che solo alcune soffrano di una vera e propria depressione ha suggerito la presenza di una varietà di fattori eziopatogenetici, da quello biologico a quello psicologico e relazionale (Raphael-Leff,1991).

Alcuni studi hanno individuato diverse forme di grave psicosi puerperale. Soifer (1971) la definisce come un periodo caratterizzato dalla presenza di allucinazioni uditive, idee deliranti di tipo paranoide, sentimenti di autosvalutazione, tristezza, rifiuto del bambino, apatia, trascuratezza, insonnia ed inappetenza.

Emerge, dunque, la necessità di valutare attentamente i disturbi dell’umore presenti nel post partum, sia di forma lieve che di media gravità, a causa delle gravi sofferenze e rischi che gravano sia sulla madre che sul bambino.

Durante la maternità il partner della donna svolge il ruolo fondamentale di fornire sicurezza e supporto emotivo. Molti padri, invece, manifestano ansia e depressione proprio nel periodo in cui dovrebbero fornire un clima di maggiore fiducia. Questi stati possono rappresentare uno svantaggio per l’equilibrio emotivo della partner, per il rapporto tra la madre ed il figlio e per lo sviluppo psicologico e somatico del bambino (Whiffen e Johnson, 1998; Luca e Bydlowsky, 2001; Baldoni, 2008).

In base ad una revisione delle teorie sistemiche emerge che qualsiasi fattore che influisce su un membro della famiglia esercita un effetto anche sugli altri membri. Si evince, quindi, che le condizioni psicosociali ed emotive dei partner si influenzano a vicenda. Alcune evidenze suggeriscono che nel periodo del post partum anche alcuni padri possono essere a rischio di sviluppare una depressione. La depressione paterna sembra essere un fenomeno clinico vero e proprio, importante ma ancora poco conosciuto (Goodman J.H, 2004; Wilson C.C., 2008).

Spesso dopo il parto è presente una difficoltà nell’adattarsi ai nuovi ruoli genitoriali con una divisione dei compiti familiari non equilibrata. Talvolta, il padre incontra delle difficoltà nell’abbandonare il ruolo tradizionale maschile e non viene coinvolto nella cura del neonato e nella gestione della casa (Whiffen e Johnson, 1998). Può percepire la depressione della partner e il passaggio alla paternità in termini di perdita della compagna e della relazione di coppia precedentemente condivisa (Meighan, Davis, Thomas e Droppleman, 1999). L’uomo può provare un forte senso di impotenza, aumento di responsabilità, stress, vissuti di rabbia e di risentimento, solitudine, frustrazione e perdita dell’intimità sessuale (Soliday et all; 1999).

Possiamo affermare, dunque, che l’intero sistema familiare nel periodo del post parto subisce numerosi cambiamenti e, oltre a rappresentare un momento ricco di gioie ed emozioni positive, è caratterizzato anche da ansia e stress per entrambi i genitori che necessitano di maggiore protezione, conforto e rassicurazione.

Il Narcisismo

Nel linguaggio abituale il narcisista è un individuo che si preoccupa solo di se stesso, manca di interesse per gli altri, è avido ed egoista. I narcisisti sono più preoccupati di come appaiono che non di cosa sentono e negano i sentimenti che contraddicono l’immagine che vorrebbero mostrare. Tendono a essere seduttivi, manipolativi e ad ottenere potere e controllo sugli altri (Lowen A., 1985).

I disturbi narcisistici sono collocati lungo un continuum: da sano a patologico. A un estremo si colloca un’immagine iper-negativa di sé: sentimenti di inferiorità e di impotenza; all’altro, un’immagine iper-positiva con eccessiva considerazione di sé, sentimenti di superiorità e onnipotenza. Il narcisismo sano (capacità di riconoscere le proprie qualità positive e di regolare la propria autostima) si trova a metà tra questi due poli opposti (Lingiardi V., Gazzillo F., 2014).

Kernberg definisce il narcisista come un individuo che presenta intense ambizioni, fantasie grandiose, sentimenti di inferiorità e bisogno di essere ammirato ed approvato. Inoltre, è tipica: l’incertezza cronica, l’insoddisfazione nei confronti di se stessi, la crudeltà e lo sfruttamento nei confronti degli altri.

I narcisisti sono assorbiti dalla propria immagine e non riescono a distinguere tra l’immagine di chi credono di essere e l’immagine di chi effettivamente sono; perdendo così l’immagine reale di sé (Lowen A., 1985).

L’immagine del sè è eccessivamente idealizzata e viene negata in modo onnipotente qualsiasi cosa comprometta questo quadro. Tali soggetti possono facilmente fare propri valori e idee degli altri, oppure, al fine di evitare un’ invidia insopportabile, inconsciamente svalutano e distruggono quel che ricevono dagli altri. Rosenfeld (1971) sostiene che le personalità estremamente narcisistiche possono essere autodistruttive; manifestare un odio inconscio per tutto ciò che è buono e valido e sentirsi trionfanti e fiduciosi solo quando riescono a distruggere gli altri e vanificare gli sforzi di coloro che li amano (Kernberg O. F., 1987).

Rosenfeld (1987) individua due tipi di narcisista: a pelle spessa e a pelle sottile. Il narcisista a pelle spessa è caratterizzato da aggressività, arroganza, invadenza e distruttività; il narcisista a pelle sottile, invece, si contraddistingue per un sentimento di vergogna e di inferiorità, per la sensibilità alle critiche e dalla costante ricerca di approvazione (Lingiardi V., Gazzillo F., 2014).

La caratteristica più rilevante del narcisista è la richiesta di attenzione che può operare a un livello molto sottile: implicitamente idealizza se stesso e può proiettare questa fantasia di appagamento del desiderio negli altri o in altri ambiti della propria vita. Questo dà luogo ad un “contratto narcisistico”: io ti incoraggio ad esaltare te stesso, tu fai lo stesso con me”; “tu idealizzi me, io idealizzo te”.

Alcuni utilizzano il linguaggio come un sistema di segni: le parole sono come espressioni del viso o del corpo ed hanno il fine di indicare ciò che procura piacere o dispiacere. Il narcisista per affermare l’intenzionalità preverbale del sé, utilizza: sopracciglia alzate; sussulti; cupe occhiate; silenzi; sospiri o colpi di tosse.  Il linguaggio li divide dall’egemonia dell’immagine e dall’utilizzo del non-verbale; utile, invece, per controllare e manipolare l’altro.

Il partner di un soggetto narcisista può rendersi conto che la generosità e l’apertura di quest’ultimo sono, in realtà, una forma di non-relazione e, se cerca risposte, va incontro a frasi del tipo: “Bene, questo è ciò che pensi tu. Questo invece è ciò che penso io. Ora la discussione finisce qui”.

Se il narcisista viene ulteriormente contrastato, l’aggressività può diventare evidente e manifestarsi con espressioni del tipo: “Lasciami stare, altrimenti…”.

L’altro deve soddisfare un bisogno: il narcisista necessita di vivere in modo stabile e prevedibile, quindi, l’altro deve essere affidabile, così da poter programmare le sue richieste all’interno del proprio sistema di vita e di relazione. Ad esempio, se egli sa che il proprio partner preferisce uno specifico programma televisivo, un gruppo musicale o di amici, questi oggetti saranno programmati all’interno di ciò che il narcisista fornisce, al fine di ottenere in cambio quelle ricompense delle quali il sè ha bisogno. Nei casi più gravi la consapevolezza di un sentimento interno di vuoto produce un senso di orrore, focalizzato sul fatto di rendersi conto di non aver vissuto realmente la propria vita come avrebbe potuto. Questo sentimento costituisce la causa di un enorme dolore mentale e di un acuto senso di perdita.

É possibile offrire ai pazienti narcisisti una relazione ed una ricostruzione storica ed aiutarli a comprendere meglio se stessi (Bollas C., 2022).

La chiave di ogni terapia è la comprensione; senza di essa nessun approccio o tecnica terapeutica è efficace a livello profondo (Lowen A., 1985).

Non ci si può sottrarre all’impressione che gli uomini di solito misurino con falsi metri, che aspirino per sé al potere, al successo, alla ricchezza, e ammirino queste cose negli altri, sottovalutando i veri valori della vita.Freud, Il disagio della civiltà.

Psicoterapia L'Aquila Lorenzetti

Ritiro e Nuova Melanconia

In alcuni momenti della nostra vita avvertiamo il bisogno di restare soli, ritirarci dalla vita sociale ed affrontare il momento presente soltanto con le nostre risorse.

I comportamenti di ritiro sono frequenti nella vita di ognuno, senza rappresentare necessariamente un significato patologico. Tuttavia, in alcuni casi, l’inibizione sociale e l’isolamento evidenziano un profondo disagio.

Entro la prima età adulta può manifestarsi un pattern pervasivo di inibizione sociale, senso di inadeguatezza e ipersensibilità al giudizio negativo. Nonostante il soggetto desideri entrare in relazione con l’altro, teme di essere respinto, escluso, umiliato e criticato; prova timidezza, imbarazzo, sentimenti di vergogna e di esclusione. Il soggetto evita attività che lo coinvolgono a livello interpersonale ed è riluttante a entrare in relazione con persone, a meno che non sia sicuro di piacere.

In ambito lavorativo può addirittura arrivare a rifiutare eventuali promozioni per paura che le nuove responsabilità possano comportare giudizi negativi da parte dei colleghi. La bassa autostima, il sentimento di inadeguatezza e i dubbi sulla propria attrattiva personale, lo portano a restare in disparte per timore che qualsiasi attenzione possa provocare sentimenti di vergogna; mostrandosi così inibito e goffo nelle situazioni interpersonali.

Lo stile di vita è dunque  limitato dall’estremo bisogno di sicurezze e certezze (Dimaggio, Semerari, 2003).

Per proteggersi da un ambiente percepito come rifiutante, il soggetto adotta, scegliendola attivamente, la condotta dell’evitamento. Tale atteggiamento comporta una progressiva chiusura sociale, che in questo caso, non riguarda l’ambito familiare di appartenenza. Quest’ultimo contesto, in realtà, se da una parte viene vissuto in modo conflittuale, dall’altra rende il soggetto fortemente dipendente da esso. L’evitamento è considerato, in effetti, dai familiari più uno stile di vita che un problema psicologico. Tali famiglie vengono spesso considerate dal soggetto come l’unico luogo sicuro a fronte di un mondo minaccioso e rifiutante.

La prospettiva psicodinamica si focalizza sul modo in cui le esperienze infantili possono portare a sviluppare un’ansia interpersonale duratura. Occorre, dunque, risalire alle origini, origini in cui compaiono esperienze infantili dolorose di estrema vergogna (Hansell, Damour, 2007). Si tratta di bambini esposti a eccessivi rimproveri e derisioni da parte di genitori severi, repressivi, rifiutanti e ridicolizzanti (Gabbard, 2015).

Si tratta, inoltre, di genitori poco propensi alla comunicazione emotiva e che scoraggiano il contatto fisico: i bambini possono, dunque, aver avuto la sensazione che i loro bisogni evolutivi fossero eccessivi o inappropriati.

Il bambino impara a non chiedere, a non esprimere emozioni e bisogni e a reprimere ogni espressione del sé perché sarebbe rifiutato o deriso, a propendere verso l’autonomia e l’autoregolazione evitando così esperienze di rifiuto, inadeguatezza e fallimento (Lingiardi, Gazzillo, 2014; Gabbard, 2015).

Spesso osserviamo delle forme di ritiro anche nei bambini e negli adolescenti: abbandonano il gruppo dei pari, restano a casa nella loro cameretta, si dedicano prevalentemente ad attività solitarie e mostrano disinteresse per la realtà che li circonda.

L’analisi del ritiro sociale dovrebbe indurre a una più approfondita riflessione sulle modalità di espressione del malessere e del disagio e come esso si manifesta soprattutto nei più giovani.

Recalcati (2019) sostiene che siamo di fronte a nuove forme di melanconia in cui non si riscontra più la sintomatologia classica della melanconia codificata da Freud: ritiro libidico, auto-denigrazione, auto-accusa, senso di colpa o delirio di rovina.

Di questo corredo resta il ritiro libidico come tendenza del soggetto alla chiusura, al rifiuto dei legami sociali, unito ad una restrizione della sua spinta vitale. Sembra palesarsi una pulsione che chiude il legame con la vita che conduce il soggetto a abbandonare il proprio desiderio. Davanti all’auto-flagellazione morale si presenta, nelle nuove forme di melanconia, una inclinazione a ritirarsi dall’ingovernabilità della vita e a ridurre al minimo le tensioni interne all’apparato psichico.

La nuova melanconia non origina dall’assenza o dalla perdita dell’oggetto e dunque, dall’impossibilità di elaborare il lutto per la perdita di un oggetto narcisisticamente significativo, ma scaturisce dalla presenza iper-presente dell’oggetto che penalizza l’emergere del desiderio (Recalcati, 2019).

Steiner (1996) definisce le esperienze di isolamento e di sottrazione del sé dalla realtà “rifugi della mente”, luoghi mentali dove l’individuo si ritira per sfuggire all’angoscia, una sorta di autocura per un Io danneggiato o in grave pericolo quando è posto di fronte alla necessità di affrontare una perdita o una separazione. Secondo Steiner il rifugio mentale serve quindi a neutralizzare, controllare ed elaborare l’angoscia di morte e l’aggressività, ma nei soggetti in cui le problematiche sono particolarmente disturbanti, il rifugio può giungere a dominare la psiche portando ad un isolamento dal mondo oggettuale, in favore di attività in cui l’aggressività è rivolta contro se stessi. Il rifugio può diventare uno stile di vita caratterizzato da un mondo onirico o fantastico, preferibile al mondo reale.

Ritirarsi temporaneamente in questi rifugi crea sollievo e non ha alcunché di patologico, ma quando il ritiro tende alla reiterazione eccessiva comporta il rischio della distorsione del senso di sé e delle relazioni con gli altri, fino alla perdita del contatto con la realtà.

Psicologa L'Aquila Psicoterapeuta a L'Aquila

La Violenza Psicologica

Non esiste violenza fisica senza violenza psicologica.

La violenza psicologica riguarda una serie di atteggiamenti volti a sottomettere l’altro, controllarlo, denigrarlo e negare il suo modo di essere. È una forma di violenza molto sottile che inizia con uno sguardo, una parola sprezzante, umiliante o con tono minaccioso. La vittima spesso dubita di se stessa e di quello che sta vivendo. La violenza psicologica non si vede, prende di mira le emozioni e le fragilità emotive. La vittima si sente spaventata, tesa e sottomessa, diviene incapace di opporre resistenza e deprivata di senso critico, al punto di considerare normale ciò che sta vivendo.

L’ aggressore riesce a deformare tutto ciò che la vittima dice, destabilizzandola e riuscendo a farla sentire in colpa e responsabile di ciò che subisce. L’ aggressore si discolpa, è l’altro ad essere pazzo, depresso, isterico e paranoico. In questo modo la vittima non riesce a difendersi e arriva a dubitare della realtà di ciò che le accade. L’ aggressore vuole il potere e induce l’altro a pensare che tutto ciò che viene fatto, anche il male, è per il suo bene. La vittima finisce per interiorizzare ciò che le accade e la violenza subita può diventare violenza autodiretta e manifestarsi in forme diverse, come in disturbi psicosomatici.

Da questo tipo di violenza anche i più forti possono essere raggirati e spezzati, è difficile parlarne e prenderne consapevolezza, reagire e ammettere di essere stati ingannati e maltrattati. Tutto quello che non viene verbalizzato e affrontato rischia, quindi, di diventare una spirale di distruzione: ogni vittima rischia di riprodurre su se stessa o sugli altri la propria violenza interiore.

Riuscire a conservare il proprio punto di vista ha a che fare con la consapevolezza e la capacità di scelta, vuol dire avere un’identità; perderlo, non riuscire più ad essere certi, essere indotti a pensare che solo l’altro sia il detentore della verità significa diventare deboli e incerti, muoversi in un territorio insicuro, perdere consistenza e indebolire la propria identità“.

Psicologa L'Aquila Psicologo L'Aquila Psicoterapia L'Aquila

Come affrontare la Vecchiaia

Simone de Beauvoir (1971) afferma che spesso si consiglia alle persone di “prepararsi” alla vecchiaia mettendo da parte del denaro; scegliendo un posto tranquillo per andarcisi a ritirare o coltivando degli hobbies. In questi casi, però, quando verrà il momento, non si sarà fatto granché. Nel suo studio sociologico l’autore sostiene che in tarda età è fondamentale continuare a perseguire dei fini che diano senso alla nostra vita: dedizione ad altre persone, a una causa, al lavoro sociale, intellettuale, politico o creativo.

Bisogna conservare delle passioni forti che ci permettano di non ripiegarci solo su noi stessi; la vita conserva un valore finché si da valore alle vite degli altri, con l’amore, l’amicizia e la compassione (Kernberg O.F., 1984).

Oggi la vecchiaia ha perso quel senso di conclusione che da merito e significato a tutto il percorso di vita; non è più considerata come un periodo caratterizzato da saggezza e maturità, ma un momento di decadenza e impoverimento.

Se i “vecchi” fossero considerati degli “anziani” con un posto e un ruolo nella società, la loro esperienza sarebbe valorizzata come fonte di conoscenza ed i segni del tempo sul corpo non diverrebbero evidenze di cui vergognarsi.

Un corpo invecchiato viene nascosto con la chirurgia plastica, i capelli bianchi coperti e rimedi di ogni genere vengono utilizzati per cercare di mantenere giovane la pelle. Tutto appare necessario per dare a noi stessi un’immagine diversa, l’immagine che vogliamo che gli altri vedano.

Questo non significa che il corpo non faccia sentire il passare del tempo, spesso, infatti, esige un’attenzione diversa; tuttavia, è possibile mantenere un relativo benessere e avere davanti a sé un tempo relativamente lungo da vivere.

La vecchiaia è un’età della vita degna di essere vissuta e non soltanto un’epoca di deterioramento, in attesa della fine. Seppur gravata da angosce e conflitti specifici, può rivelarsi come un tempo per la creatività e per un’ulteriore sviluppo.

Malgrado ciò, non si può più ignorare la fragilità del corpo e che la vita abbia un termine; è necessario elaborare il problema del limite dell’esistenza e la vita deve continuare ad avere il proprio significato.

Il periodo finale dell’esistenza può e deve essere considerato come un’età che appartiene alla vita, in modo naturale, come: l’infanzia, l’adolescenza e la maturità.

L’avanzare dell’età porta con sé perdite, lutti e traumi importanti: la morte dei genitori; la partenza dei figli da casa; il pensionamento dal lavoro; la perdita di un fratello o di una sorella; degli amici o di un coniuge. Tali dolorose perdite testimoniano che un’intera epoca della vita è passata, senza possibilità di ritorno; dunque, non è facile preservare il proprio equilibrio emotivo e spesso si ha bisogno di un aiuto.

L’approssimarsi della vecchiaia e la paura inconscia della morte può determinare, in alcune persone, uno squilibrio tale da generare una crisi delle difese, che fino a quel momento gli avevano consentito una forma di equilibrio psichico.

Talvolta, ciò che porta gli anziani a richiedere una terapia è: la difficoltà ad elaborare tali lutti; ad accettare le trasformazioni fisiche che il passare dell’età comporta; il timore della perdita della potenza sessuale; una ricaduta di una malattia precedente come, ad esempio, la ripresa di una sindrome depressiva (Corsa R., et al., 2020).

Intraprendere una psicoterapia può essere una scelta relativamente facile per una persona giovane; mentre, per una persona anziana, può essere più difficile pensare che possa esistere un aiuto psicoterapeutico (Kernberg O.F., 1984).

La possibilità di riprendere in mano il senso della propria esistenza ed il proprio destino permette, seppur in tarda età, di riconoscere l’opportunità di fare i conti con ciò che ha ossessionato l’individuo per tutta la vita. Con l’avanzare dell’età aumenta anche la necessità di dare significato alla propria esistenza e di comprendere ciò che non è stato possibile capire prima.

De Masi (2002) sostiene che si tratta di fare il lutto di quello che siamo stati e che invece avremmo potuto essere; il lutto rispetto agli errori commessi o alle occasioni mancate. Seppur con dispiacere, è un periodo in cui si può mantenere vivo il ricordo e la consapevolezza di quello che di buono abbiamo potuto fare.

I ricordi del passato non si esauriscono in esso, ma suscitano affetti vivi che mettono in movimento e ispirano azioni concrete nel presente. Il ricordo è un filo conduttore ed aiuta l’individuo a dare senso al proprio percorso; è restare vivi ed andare avanti cercando ancora la propria strada (Corsa R., et al., 2020).

Ricordare e far tornare alla memoria il passato è un lavoro indispensabile al lavoro del lutto. Il lavoro del lutto è dilaniante e doloroso ma è un lavoro della memoria (Recalcati M., 2016).

Quando si è diventati vecchi sembra non esserci più nessuno disposto ad ascoltare e gradualmente si perde la fiducia nel comunicare i propri pensieri.

Talvolta, l’isolamento del soggetto è proprio una reazione al mondo disinteressato che lo circonda, è un necessario aggiustamento che gli permette di rivolgersi di nuovo a se stesso, non volendo fare più niente per essere ascoltato.

Quando la stanchezza e la paura sono evidenti, è bello avere qualcuno che, ascoltando, aiuta a narrare la propria vita e ad affrontare i propri mostri.