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Category Archives: Altri sintomi

Gelosia e umiliazione: “Tu non mi ami!”

La gelosia non è una reazione così semplice e naturale come crediamo; spesso, infatti, si è gelosi senza una reale motivazione. Una tipica situazione è quella della rivalità in amore: nella misura in cui si manifesta come una reazione d’odio e di aggressività a una perdita reale o minacciata, è tanto inevitabile quanto ogni reazione di questo tipo.

Una caratteristica particolare della gelosia è il senso di umiliazione per aver danneggiato la sicurezza e la fiducia in se stessi. Tali perdite non sono sentite consciamente da una persona gelosa, al contrario, quanto più il geloso è furioso e aggressivo, tanto meno si sente umiliato e viceversa, meno si sente arrabbiato e più è depresso.

Non essere amato o credere di non esserlo, significa inconsciamente che non è da amare, che è odioso e pieno di odio. Sente di essere stato abbandonato e disprezzato dalla persona che ama perchè non è abbastanza buono per lei. La depressione, le paure di solitudine e la sensazione di essere vulnerabile di fronte al pericolo che questo pensiero di non essere amabile fa sorgere in lui, sono insopportabili. Odiando e condannando l’altro, in questo caso il rivale in amore, riusciamo a mitigare l’intensità della gelosia e l’odio può essere rivolto contro di lui senza senso di colpa.

Secondo J. Riviere, quando qualcuno inconsciamente si sente insufficiente in amore e teme che questa sua insufficienza possa essere scoperta e palesata dal suo partner in amore, inizia ad essere geloso.

L’uomo che ha perduto o pensa di perdere la persona che ama, reagisce non solo alla perdita dell’amore di lei, ma anche alla perdita di questo amore come prova di fronte a se stesso del proprio valore (M. Klein; J. Riviere., 1969).

Diventare genitori

La genitorialità implica la capacità di un adulto, genitore biologico o meno, di prendersi cura di un altro individuo, sia sul piano fisico che affettivo: capacità di occuparsi dell’altro, di individuarne i cambiamenti riguardanti l’aspetto e il funzionamento corporeo e psichico, di esplorarne le emozioni, di garantire protezione attraverso un accudimento adeguato e centrato sulla capacità di rispondere al bisogno di protezione fisica e sicurezza, di entrarne in risonanza affettiva e relazionale, di dare dei limiti e di prevedere il raggiungimento di tappe evolutive dell’altro (Bastianoni, Taurino, 2007). La genitorialità è da intendersi però, anche come un percorso dinamico che comporta una continua riorganizzazione in virtù dei cambiamenti evolutivi dei figli ma anche degli stessi genitori, oltre che degli accadimenti contestuali.

Tali diverse funzioni di cura si traducono in comportamenti verbali e non, che variano sia da persona a persona che all’interno delle singole relazioni di cura che una persona stabilisce con figli diversi o con lo stesso figlio in tempi diversi.

Va intesa non solo come l’insieme di atteggiamenti, comportamenti e sentimenti di cura ma, primariamente, come una dimensione interna simbolica che si origina a partire dalla propria esperienza di figli.

Di fondamentale importanza appare, dunque, la relazione tra gli individui come esperienza che organizza il mondo esterno e che struttura quello interno.

La funzione genitoriale è composta, quindi, da molti piani e la sua comprensione deve tenerli tutti in considerazione, in modo da individuare eventuali difficoltà e prevenire un impatto, talvolta determinante, sul percorso di crescita del bambino.

Bowlby (1969), come è noto, parla di “modelli operativi interni” per descrivere la rappresentazione interna della relazione d’attaccamento nei suoi aspetti strutturali e dinamici.

Ciò implica che un individuo che ha interiorizzato un modello operativo delle figure di attaccamento come amorevoli, disponibili ed attente ai suoi bisogni, percepirà se stesso come degno e meritevole di cure (Bowlby, 1973, 1980, 1988) e le sue relazioni future saranno condotte alla luce di questi assunti. Al contrario, un bambino che ha sperimentato un attaccamento di tipo insicuro può percepire il mondo come pericoloso, considerandosi incapace e non meritevole di amore; di conseguenza, ogni relazione affettiva avrà l’impronta di questi sentimenti negativi e difensivi.

Diventare genitori implica un profondo cambiamento che richiede un forte adattamento psicologico ed una riorganizzazione della coppia e delle proprie relazioni interpersonali.

Appare indispensabile porre una particolare attenzione a questo periodo, considerato proprio come un momento di crisi, in cui si riattivano conflitti e vissuti dell’infanzia.

Qualsiasi fattore che influisce su un membro della famiglia esercita un effetto anche sugli altri membri; dunque, le condizioni psicosociali ed emotive dei partner si influenzano a vicenda.

L’intero sistema familiare subisce numerosi cambiamenti nel periodo successivo al parto e, oltre a rappresentare un momento ricco di gioie ed emozioni positive, è caratterizzato anche da difficoltà nell’adattarsi ai nuovi ruoli genitoriali, ansia e stress per entrambi i genitori che necessitano di maggiore ascolto, protezione, conforto e rassicurazione.

Destino e Inconscio

Il Destino e l’Inconscio

Quando la vita ci pone davanti a dei momenti fatali o a delle inspiegabili ingiustizie, l’uomo si chiede da sempre, perché?

La risposta più semplice e antica a questa domanda è: destino.

Imprevedibilità e casualità sono il volto instabile e destabilizzante del destino. Il caso non risponde a nessuno schema o organizzazione, è inaccessibile alla comprensione e il suo andamento è opposto al concetto di ordine. Così, osservando gli avvenimenti casuali, non è possibile leggere alcuna logica comprensibile o uno scopo sensato; ogni evento fortuito non è prevedibile, non sembra avere una finalità, una motivazione o una spiegazione. Il concetto di caso appare, dunque, come un affronto all’Io, alle sue facoltà di comprendere, predire, determinare e alle sue funzioni di controllo.

Asserire che la spiegazione degli eventi fatali sia dovuta esclusivamente al caso può sembrare semplicistico e dunque, si avanza il sospetto che il caso sia un evento la cui causa è ancora sconosciuta. Il sapere, infatti, toglie sicuramente terreno alla dottrina del caso e, dinanzi alle cognizioni dell’intelletto, non si invoca più l’intervento della sorte per spiegare la realtà.

Un evento può rivelarsi fortunato o sfortunato, a seconda dei momenti in cui accade o delle conseguenze che avrà nel futuro. Caso e fortuna fanno sentire l’uomo impotente e se il tutto avviene secondo un’imprevedibile volubilità, non esiste ragione perché l’Io si impegni nell’autodeterminazione. Se lo strapotere è della fortuna, l’Io non può che abbandonarsi all’impotenza, adagiandosi pigramente e demandando ad esso ogni scelta e responsabilità; se invece, l’Io non riconosce il potere della fortuna, non può che affermare la sua onnipotenza, ritenendo la sua abilità più efficace del caso, erotizzando la sfida con la fortuna, consapevole della sofferenza che ne conseguirà.

La psicoanalisi ha ridimensionato il concetto di destino; ad oggi l’ipotesi che l’inconscio sia responsabile di comportamenti apparentemente fortuiti è ampiamente accettata dalla cultura contemporanea. Atti ed eventi mancati, omissioni, dimenticanze e malintesi, un tempo considerati figli della casualità, oggi sono attribuiti all’inconscio. Questo si rivela nella reiterazione di comportamenti o impedimenti, in atti inspiegabili alla ragione, in tutte le coazioni a ripetere e ripropone modelli identici con la stessa perseveranza del destino.

Le sue manifestazioni assumono un andamento simile alle combinazioni del caso: imprevedibili, perverse e insensate, come solo il caso sa fare. Se si riuscisse a scrutare nell’abisso della mente, molte cose apparentemente assurde troverebbero una spiegazione; non è raro osservare partner diversi di una stessa persona che ricordano quelli precedenti e presentano tratti e caratteristiche in comune anche nell’aspetto. Le relazioni umane o i rapporti d’amore di alcune persone si concludono tutte nello stesso modo e, a questa apparente casualità, la scoperta dell’inconscio può offrire nuovi scenari e rintracciare scopi che il conscio mai condividerebbe, anzi, al contrario, troverebbe lesivi, dolorosi o assurdi.

Nel creare apparenti combinazioni ed eventi, l’inconscio lavora ad un preciso piano e persegue mete e scopi coerenti, ignoti all’Io e non conoscibili né spiegabili al conscio. L’Io non ha consapevolezza delle sue intenzioni e così gli eventi della vita appaiono spesso fortuiti e imprevedibili, ma solo in apparenza. (Widmann C., 2006).

Terapia e Separazioni

Fallimenti Matrimoniali e cattive separazioni

Nell’ultimo decennio la famiglia italiana ha attraversato dei momenti di grave crisi e i figli sono stati spesso posti al centro del conflitto tra i genitori. Nell’evoluzione normale del bambino sono spesso presenti timori, ansie e momenti di tristezza, contenuti e trasformati attraverso valide relazioni familiari e sufficienti risorse interne al bambino.

La rottura del legame tra i genitori e l’intenso stato di conflitto può invece far riemergere, in modo spesso intenso e patologico: ansie, timori di abbandono, angosce persecutorie e depressive; nel bambino vengono a mancare proprio quei punti di riferimento chiari e rassicuranti di cui avrebbe bisogno. La separazione di per sé non porta necessariamente ad effetti negativi e patologie ma è il conflitto e la “cattiva separazione” che porta a grandi sofferenze.

Nelle separazioni conflittuali, infatti, i bambini sono a rischio di danno evolutivo e possono attivarsi in loro molteplici vissuti e fantasie come, ad esempio, la tendenza a colpevolizzarsi per la separazione dei genitori e fantasticherie rispetto alla loro riunificazione, anche in seguito alla ricostituzione di nuovi legami affettivi con altri compagni. Tali vissuti vengono spesso aggravati dai tentativi di manipolazione che tendono a spingere i bambini da una parte o dall’altra del conflitto genitoriale. Talvolta i genitori, seppur consapevoli che il loro comportamento porterà danni psicologici al figlio, si ritrovano all’interno di una relazione perversa che non gli consente di astenersi ma di perseverare in comportamenti disfunzionali per se stessi e per i loro bambini, pur di soddisfare la rabbia e il risentimento verso l’ex compagno/a.

L’anno successivo alla separazione sembra essere quello più impegnativo dal punto di vista emotivo, sia per il dolore del distacco sia per i cambiamenti dovuti dalla necessità di riorganizzare la propria vita (Montecchi F., 2019).
Separarsi non significa soltanto perdere il proprio partner ma rinunciare a tutte le cose in comune, compresi gli ideali che un tempo sostenevano la coppia e la vita insieme. La separazione sconvolge gli strati più profondi dell’individuo e scava nel suo aspetto peggiore, portando a volte: rabbia, odio, vendetta, cattiveria, falsità e invidia. Nella loro guerra gli adulti non risparmiano i figli, fino a che non troveranno il modo di riconciliarsi. La letteratura classica ci offre la tragedia “Medea” di Euripide.

Medea, con il suo potere magico, aiuta Giasone a conquistare il vello d’oro. Giasone per riconoscenza la sposa e giura davanti agli dèi eterna fedeltà. La tragedia inizia al punto in cui Giasone abbandona sua moglie per sposare la figlia di Creonte, Glauce. Giasone non vuole essere suo nemico ed offre a Medea sostegno, cure ed aiuto economico, per lei e i loro figli, ma l’ira di Medea lo allontana e escogita terribili piani per vendicarsi: con uno stratagemma manda a Glauce un vestito da sposa avvelenato, in cui prende fuoco atrocemente e, per colpire suo marito,  sacrifica i suoi figli uccidendoli. Medea uccide per odio, rabbia e rancore verso Giasone, che lentamente va in rovina e muore in solitudine.

Riconciliarsi è la prova più gravosa e matura dell’essere umano nell’ambito delle relazioni. Non significa rinunciare alla discussione o ad uno scontro volto a difendere i propri diritti e proteggersi da un torto subito. Riconciliazione è la riappacificazione con il male che ognuno ha in sé, che una volta riconosciuto, non si oppone più al cambiamento; significa riconoscere ciò che di irrazionale c’è in sé e nell’altro, per poter porre fine a questo ciclo distruttivo (Petri H., 2000).

La maggior parte dei fallimenti matrimoniali potrebbe essere gestita in termini clinico-terapeutici e di mediazione familiare, dove il conflitto viene letto in termini di disagio psichico e le energie emotive ed economiche utilizzate per la battaglia legale indirizzate per gestire la separazione con un supporto clinico, in modo da non danneggiare i figli e la qualità della propria vita. È possibile trasformare un’accanita conflittualità in solidarietà e offrire ai propri figli una genitorialità più integrata e meno scissa (Montecchi F., 2019).

Genitorialità

Gravidanza e Neogenitorialità

Durante la gravidanza e nei primi mesi di vita del bambino, la madre deve elaborare dei processi psichici del tutto inconsci; è un momento estremamente delicato in cui la donna inizia a distinguere tra realtà, fantasie e fantasmi relativi al parto, al neonato e all’ambiente esterno (Ferraro, Nunziante Cesaro, 1985).

La nascita di un bambino è un’importante fase della vita di una donna che permette la riorganizzazione del proprio mondo interno e la creazione di uno spazio adatto a contenere l’idea del piccolo arrivato e di se come genitore (Minuchin, 1976).

Possiamo evidenziare, dunque, quanto sia importante un processo elaborativo in questo particolare periodo, considerato da vari autori, proprio come un momento di crisi, in cui si riattivano anche conflitti e vissuti dell’infanzia. Soifer (1971) sostiene, infatti, che la madre inizia un processo regressivo in cui entra in contatto con le emozioni vissute da bambina: se la donna è riuscita ad identificarsi con una buona immagine materna, riuscirà a vivere serenamente anche l’esperienza della maternità.

Ogni madre risponde non tanto al bambino reale, ma a quel che di sé vede fantasmaticamente proiettarsi nel suo bambino. Se il bambino guardando la madre vede se stesso nello sguardo dell’Altro, si vede come la madre lo vede: amabile, desiderabile, oppure no. Guardando il bambino la madre deposita inconsciamente in lui la sua storia di figlia. Se dunque, per il bambino essere amabile dipende dallo sguardo della madre, per la madre l’amabilità di un bambino può dipendere da come ha integrato in se stessa la propria maternità e, in particolare, il legame con sua madre. In ogni gravidanza, infatti, la futura madre si confronta con il fantasma della propria madre e dovrà morire come figlia (Recalcati, 2016).

Possiamo affermare, quindi, che la gravidanza ed il periodo successivo al parto sono fondamentali per i rapporti che si instaurano tra la madre ed il neonato, il partner e la famiglia.

Bibring et al. (1961) individua nella futura madre due fasi: l’accettazione dell’ambiente come parte integrante di sé e il riconoscimento dell’esistenza del bambino dentro di sé. Secondo l’autore la gravidanza è caratterizzata da un’estrema vulnerabilità della donna che può destabilizzare l’equilibrio precedentemente raggiunto. Se questo “lavoro psichico” non riesce a concludersi con l’acquisizione di un nuovo equilibrio maturativo, può evolvere in un disturbo depressivo nel post-partum.

Pines (1982) indagando lo stato mentale della donna in gravidanza, individua quattro differenti stati: una polarizzazione su di sé caratterizzata da regressione e passività; la presenza di ansia e perdita in seguito alla percezione del feto come entità separata; ansia riguardante l’integrità del bambino durante il travaglio ed il parto; il periodo del dopo parto. Questi numerosi cambiamenti possono creare profonde difficoltà in grado di compromettere l’identità individuale. Per la futura mamma sarà quindi necessario ridefinire, oltre che la realtà esterna, preparando uno spazio fisico nel mondo reale per il neonato, anche il proprio mondo interno, creando uno spazio che gli permetta di contenere l’idea di un figlio. Stern sostiene, infatti, che alla nascita del bambino corrisponde la nascita psicologica della madre.

Molte donne nel periodo del post-parto sperimentano una vasta gamma di emozioni positive, come felicità e soddisfazione, ma possono presentare anche ansia, confusione, frustrazione e tristezza. I disturbi dell’umore presenti in questo delicato periodo sono ancora oggi sottodiagnosticati con conseguenze di vasta portata per la donna e per tutta la famiglia.

La maternity blues è nota anche come “baby blues” ed è un periodo in cui la donna è estremamente emotiva, presenta frequenti episodi di pianto, è irritabile, ipersensibile e ha oscillazioni dell’umore che durano da alcune ore a diversi giorni dopo il parto (Horowitz et al. 2005).

La baby blues è molto comune e vissuta dalla maggior parte delle madri; i suoi sintomi non interferiscono con il funzionamento sociale e lavorativo delle donne e necessita il più delle volte del solo sostegno familiare. Tuttavia, se persiste può renderle vulnerabili a una forma più grave di disturbo dell’umore.

La depressione post partum, ad esempio, è il disturbo psichiatrico più comune osservato nel periodo che segue la nascita di un bambino. È difficile distinguerla dalla depressione che generalmente si manifesta in qualsiasi altro periodo della vita di una donna, tuttavia, i pensieri negativi presenti in questo tipo di depressione sono principalmente riferiti al neonato. I sintomi che caratterizzano questo disturbo sono: sentimenti di inadeguatezza, collera, ipersensibilità, ansia, vergogna, odio e trascuratezza verso se stessa ed il bambino, disturbi del sonno e dell’appetito, calo del desiderio sessuale e pensieri suicidari (Raphael-Leff, 1991; Nonacs, 2005). Inoltre, sono spesso frequenti pensieri di carattere ossessivo che riguardano il bambino, paure immotivate di fargli del male o preoccupazioni eccessive circa il suo benessere e la sua sicurezza. È importante anche tener presente dei cambiamenti ormonali che possono influire sull’insorgenza di questo disturbo. Il fatto che la maggior parte delle donne dopo il parto sia soggetta a cambiamenti ormonali ma che solo alcune soffrano di una vera e propria depressione ha suggerito la presenza di una varietà di fattori eziopatogenetici, da quello biologico a quello psicologico e relazionale (Raphael-Leff,1991).

Alcuni studi hanno individuato diverse forme di grave psicosi puerperale. Soifer (1971) la definisce come un periodo caratterizzato dalla presenza di allucinazioni uditive, idee deliranti di tipo paranoide, sentimenti di autosvalutazione, tristezza, rifiuto del bambino, apatia, trascuratezza, insonnia ed inappetenza.

Emerge, dunque, la necessità di valutare attentamente i disturbi dell’umore presenti nel post partum, sia di forma lieve che di media gravità, a causa delle gravi sofferenze e rischi che gravano sia sulla madre che sul bambino.

Durante la maternità il partner della donna svolge il ruolo fondamentale di fornire sicurezza e supporto emotivo. Molti padri, invece, manifestano ansia e depressione proprio nel periodo in cui dovrebbero fornire un clima di maggiore fiducia. Questi stati possono rappresentare uno svantaggio per l’equilibrio emotivo della partner, per il rapporto tra la madre ed il figlio e per lo sviluppo psicologico e somatico del bambino (Whiffen e Johnson, 1998; Luca e Bydlowsky, 2001; Baldoni, 2008).

In base ad una revisione delle teorie sistemiche emerge che qualsiasi fattore che influisce su un membro della famiglia esercita un effetto anche sugli altri membri. Si evince, quindi, che le condizioni psicosociali ed emotive dei partner si influenzano a vicenda. Alcune evidenze suggeriscono che nel periodo del post partum anche alcuni padri possono essere a rischio di sviluppare una depressione. La depressione paterna sembra essere un fenomeno clinico vero e proprio, importante ma ancora poco conosciuto (Goodman J.H, 2004; Wilson C.C., 2008).

Spesso dopo il parto è presente una difficoltà nell’adattarsi ai nuovi ruoli genitoriali con una divisione dei compiti familiari non equilibrata. Talvolta, il padre incontra delle difficoltà nell’abbandonare il ruolo tradizionale maschile e non viene coinvolto nella cura del neonato e nella gestione della casa (Whiffen e Johnson, 1998). Può percepire la depressione della partner e il passaggio alla paternità in termini di perdita della compagna e della relazione di coppia precedentemente condivisa (Meighan, Davis, Thomas e Droppleman, 1999). L’uomo può provare un forte senso di impotenza, aumento di responsabilità, stress, vissuti di rabbia e di risentimento, solitudine, frustrazione e perdita dell’intimità sessuale (Soliday et all; 1999).

Possiamo affermare, dunque, che l’intero sistema familiare nel periodo del post parto subisce numerosi cambiamenti e, oltre a rappresentare un momento ricco di gioie ed emozioni positive, è caratterizzato anche da ansia e stress per entrambi i genitori che necessitano di maggiore protezione, conforto e rassicurazione.