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La Violenza Psicologica

Non esiste violenza fisica senza violenza psicologica.

La violenza psicologica riguarda una serie di atteggiamenti volti a sottomettere l’altro, controllarlo, denigrarlo e negare il suo modo di essere. È una forma di violenza molto sottile che inizia con uno sguardo, una parola sprezzante, umiliante o con tono minaccioso. La vittima spesso dubita di se stessa e di quello che sta vivendo. La violenza psicologica non si vede, prende di mira le emozioni e le fragilità emotive. La vittima si sente spaventata, tesa e sottomessa, diviene incapace di opporre resistenza e deprivata di senso critico, al punto di considerare normale ciò che sta vivendo.

L’ aggressore riesce a deformare tutto ciò che la vittima dice, destabilizzandola e riuscendo a farla sentire in colpa e responsabile di ciò che subisce. L’ aggressore si discolpa, è l’altro ad essere pazzo, depresso, isterico e paranoico. In questo modo la vittima non riesce a difendersi e arriva a dubitare della realtà di ciò che le accade. L’ aggressore vuole il potere e induce l’altro a pensare che tutto ciò che viene fatto, anche il male, è per il suo bene. La vittima finisce per interiorizzare ciò che le accade e la violenza subita può diventare violenza autodiretta e manifestarsi in forme diverse, come in disturbi psicosomatici.

Da questo tipo di violenza anche i più forti possono essere raggirati e spezzati, è difficile parlarne e prenderne consapevolezza, reagire e ammettere di essere stati ingannati e maltrattati. Tutto quello che non viene verbalizzato e affrontato rischia, quindi, di diventare una spirale di distruzione: ogni vittima rischia di riprodurre su se stessa o sugli altri la propria violenza interiore.

Riuscire a conservare il proprio punto di vista ha a che fare con la consapevolezza e la capacità di scelta, vuol dire avere un’identità; perderlo, non riuscire più ad essere certi, essere indotti a pensare che solo l’altro sia il detentore della verità significa diventare deboli e incerti, muoversi in un territorio insicuro, perdere consistenza e indebolire la propria identità“.

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Come affrontare la Vecchiaia

Simone de Beauvoir (1971) afferma che spesso si consiglia alle persone di “prepararsi” alla vecchiaia mettendo da parte del denaro; scegliendo un posto tranquillo per andarcisi a ritirare o coltivando degli hobbies. In questi casi, però, quando verrà il momento, non si sarà fatto granché. Nel suo studio sociologico l’autore sostiene che in tarda età è fondamentale continuare a perseguire dei fini che diano senso alla nostra vita: dedizione ad altre persone, a una causa, al lavoro sociale, intellettuale, politico o creativo.

Bisogna conservare delle passioni forti che ci permettano di non ripiegarci solo su noi stessi; la vita conserva un valore finché si da valore alle vite degli altri, con l’amore, l’amicizia e la compassione (Kernberg O.F., 1984).

Oggi la vecchiaia ha perso quel senso di conclusione che da merito e significato a tutto il percorso di vita; non è più considerata come un periodo caratterizzato da saggezza e maturità, ma un momento di decadenza e impoverimento.

Se i “vecchi” fossero considerati degli “anziani” con un posto e un ruolo nella società, la loro esperienza sarebbe valorizzata come fonte di conoscenza ed i segni del tempo sul corpo non diverrebbero evidenze di cui vergognarsi.

Un corpo invecchiato viene nascosto con la chirurgia plastica, i capelli bianchi coperti e rimedi di ogni genere vengono utilizzati per cercare di mantenere giovane la pelle. Tutto appare necessario per dare a noi stessi un’immagine diversa, l’immagine che vogliamo che gli altri vedano.

Questo non significa che il corpo non faccia sentire il passare del tempo, spesso, infatti, esige un’attenzione diversa; tuttavia, è possibile mantenere un relativo benessere e avere davanti a sé un tempo relativamente lungo da vivere.

La vecchiaia è un’età della vita degna di essere vissuta e non soltanto un’epoca di deterioramento, in attesa della fine. Seppur gravata da angosce e conflitti specifici, può rivelarsi come un tempo per la creatività e per un’ulteriore sviluppo.

Malgrado ciò, non si può più ignorare la fragilità del corpo e che la vita abbia un termine; è necessario elaborare il problema del limite dell’esistenza e la vita deve continuare ad avere il proprio significato.

Il periodo finale dell’esistenza può e deve essere considerato come un’età che appartiene alla vita, in modo naturale, come: l’infanzia, l’adolescenza e la maturità.

L’avanzare dell’età porta con sé perdite, lutti e traumi importanti: la morte dei genitori; la partenza dei figli da casa; il pensionamento dal lavoro; la perdita di un fratello o di una sorella; degli amici o di un coniuge. Tali dolorose perdite testimoniano che un’intera epoca della vita è passata, senza possibilità di ritorno; dunque, non è facile preservare il proprio equilibrio emotivo e spesso si ha bisogno di un aiuto.

L’approssimarsi della vecchiaia e la paura inconscia della morte può determinare, in alcune persone, uno squilibrio tale da generare una crisi delle difese, che fino a quel momento gli avevano consentito una forma di equilibrio psichico.

Talvolta, ciò che porta gli anziani a richiedere una terapia è: la difficoltà ad elaborare tali lutti; ad accettare le trasformazioni fisiche che il passare dell’età comporta; il timore della perdita della potenza sessuale; una ricaduta di una malattia precedente come, ad esempio, la ripresa di una sindrome depressiva (Corsa R., et al., 2020).

Intraprendere una psicoterapia può essere una scelta relativamente facile per una persona giovane; mentre, per una persona anziana, può essere più difficile pensare che possa esistere un aiuto psicoterapeutico (Kernberg O.F., 1984).

La possibilità di riprendere in mano il senso della propria esistenza ed il proprio destino permette, seppur in tarda età, di riconoscere l’opportunità di fare i conti con ciò che ha ossessionato l’individuo per tutta la vita. Con l’avanzare dell’età aumenta anche la necessità di dare significato alla propria esistenza e di comprendere ciò che non è stato possibile capire prima.

De Masi (2002) sostiene che si tratta di fare il lutto di quello che siamo stati e che invece avremmo potuto essere; il lutto rispetto agli errori commessi o alle occasioni mancate. Seppur con dispiacere, è un periodo in cui si può mantenere vivo il ricordo e la consapevolezza di quello che di buono abbiamo potuto fare.

I ricordi del passato non si esauriscono in esso, ma suscitano affetti vivi che mettono in movimento e ispirano azioni concrete nel presente. Il ricordo è un filo conduttore ed aiuta l’individuo a dare senso al proprio percorso; è restare vivi ed andare avanti cercando ancora la propria strada (Corsa R., et al., 2020).

Ricordare e far tornare alla memoria il passato è un lavoro indispensabile al lavoro del lutto. Il lavoro del lutto è dilaniante e doloroso ma è un lavoro della memoria (Recalcati M., 2016).

Quando si è diventati vecchi sembra non esserci più nessuno disposto ad ascoltare e gradualmente si perde la fiducia nel comunicare i propri pensieri.

Talvolta, l’isolamento del soggetto è proprio una reazione al mondo disinteressato che lo circonda, è un necessario aggiustamento che gli permette di rivolgersi di nuovo a se stesso, non volendo fare più niente per essere ascoltato.

Quando la stanchezza e la paura sono evidenti, è bello avere qualcuno che, ascoltando, aiuta a narrare la propria vita e ad affrontare i propri mostri.

Dott.ssa Lorenzetti - Psicologa e Psicoterapeuta a L'Aquila

Umore, Depressione e Bipolarità

L’umore influisce su tutto ciò che facciamo, su come stiamo nei confronti di noi stessi e degli altri, su come guardiamo al futuro o ricordiamo il passato. Ciascuno vive momenti e periodi di felicità e tristezza e possiede un tono dell’umore di base con cui affronta le esperienze. Talvolta però, l’umore può sprofondare verso il basso (depressione), volare troppo in alto (mania) o mutare in modo altalenante (bipolarità).
La depressione viene descritta come una sensazione pervasiva e persistente di malinconia, tristezza ed apatia. L’umore depresso non è di per sé sufficiente a fare diagnosi di disturbo depressivo; sono necessari infatti altri segni o sintomi significativi.
Si può ipotizzare la presenza di un’episodio maniacale quando: l’umore è esageratamente eccitato, euforico o irritabile in modo insolito o immotivato; vi è un ottimismo esagerato e una fiducia illimitata nelle proprie capacità; vi sono altre diverse alterazioni specifiche. Il disturbo bipolare invece si caratterizza per l’alternanza di episodi maniacali, ipomaniacali o depressivi maggiori o ipomaniacali e depressivi. La comprensione psicoanalitica della depressione ha preso le mosse dall’osservazione del lutto come conseguenza della perdita di un oggetto amato.
(V. Lingiardi; F. Gazzillo 2014).
Secondo Freud il lutto possiede in comune con la melanconia: l’umore depresso, il disinteresse per il mondo esterno, la perdita della capacità di amare e di scegliere un nuovo oggetto d’amore. È necessario del tempo affinché l’esame di realtà rilevi che l’oggetto amato non esista più ed inizi un progressivo ritiro della libido che si sottrae all’oggetto perduto. Il ritorno alla normalità avviene inizialmente attraverso un sovrainvestimento ai singoli ricordi con grande dispendio di tempo ed energia. Nella melanconia si presenta uno svilimento del sentimento di sé, autoaccuse e autorimproveri. La melanconia può virare nella mania: risposta rovesciata della stessa problematica.
(Freud S., 1915)
Il trattamento combinato dei disturbi dell’umore sembra più efficace della sola farmacoterapia. Le terapie dinamiche lunghe sembrano conseguire risultati migliori e più stabili.
(Lingiardi, Gazzillo, Genova, 2012).